Nessun bisogno di presentazione: buona parte del pianeta sa cos’è WhatsApp. Lo usa nei più svariati modi: grandi e piccoli sembrano divertirsi e il mondo è – apparentemente – più unito.
Non che i concorrenti scherzino nell’aver spalancato le porte effervescenti delle chat, ma questa piccola icona verde ha un fascino che ha travolto tanti. Sì, qualcosa di particolare. Oltre il fascino della novità.
Anch’io lo uso e lo saluto piacevolmente come una pietra miliare per soddisfare il bisogno sempre crescente di comunicazione, ossia, come la parola stessa dice, mettere in comune. Sì, fare partecipe qualcuno di qualche informazione. Riguardo a se stessi o ad altri. O ad altro. Diceva Calvino che comunicare è condividere. E qualsiasi cosa condivisa raddoppia il piacere.
Sì, siamo ormai nella vertigine della comunicazione: trasmettere, partecipare, diffondere. E, parola magica, appunto condividere. Sfidando i limiti dello spazio e del tempo, sulla strada dell’appagamento della propria inquietudine.
Condividere qualunque cosa: parole e immagini, video e informazioni di ogni genere. Anche – con licenza – innumerevoli stupidate. A qualunque ora del giorno e della notte. In qualsiasi parte del mondo, in pochi rapidissimi secondi. Grande WhatsApp! Grazie comunque anche quando la condivisione ha qualcosa di poco chiaro, intrigante e nascosto, con risvolti emotivi acuti ed intimi. Oppure attuata con secondi fini, con scivolamenti nelle melme torbide delle umane relazioni, dove sono in agguato inganno, raggiro o semplice ingenuità.
WhatsApp, un amore di chat offerto senza costi a tantissimi uomini e donne! E qualcuno se n’è innamorato perdutamente. Alla domanda: “Scusa, dove abiti?” molti non lo sanno ancora verbalizzare, ma vivono ormai lì. In WhatsApp. Si alzano e cominciano la loro quotidiana avventura comunicativa. E relazionale. E tutto il giorno lì, a volte nascostamente al lavoro o a scuola, altre spudoratamente ovunque. Altre ancora con il brivido della curiosità e del proibito.
Ampia o stretta che sia, la ragnatela di contatti si intesse nel corso del giorno. Naturalmente ci sono gli interlocutori privilegiati, sui quali si inserisce sempre qualcun altro per ragioni professionali, familiari o amicali. O semplicemente perché ti vedono on line, o sanno che ci stai volentieri a fare due chiacchiere scritte. E ti perdi mezza mattina in cosucce. Una parte di pomeriggio in ciò che – stringi stingi – non merita più di 5 muniti. Non sempre e non per tutti, il regno dei whatsappisiti è la sera o la notte.
Puoi sapere se il tuo messaggio è stato letto oppure no e da quanto tempo il tuo contatto non accede… Insomma un gioco anche di controllo, soprattutto quando si tratta di figli, mariti o mogli, amanti di vario livello, flirt sovente solo virtuali.
La discriminante nell’uso degli strumenti è la semplice e limpida consapevolezza della loro utilità. Tutti conosciamo il naturale scopo di una matita. Può diventare fatale se infissa invece inopportunamente con violenza in un occhio.
Caro WhatsApp, voglio ringraziarti perché ci sei. Grazie per quel mi hai permesso di comunicare e delle parole, delle immagini bellissime e delle emozioni che ho potuto ricevere attraverso di te.
Ma sappi che per apprezzarti meglio, ti prendo a piccole dosi. Soprattutto non permetterò che il tuo uso inconsapevole mi porti ad abitare da te. Grazie. Io al momento preferisco abitare… da me.
I pochi amici e le pochissime persone veramente care, compresa l’unica che conta davvero tanto nella tua vita… incontrali dal vivo. Scegli il tempo per loro. Sentirai l’energia che ti avvolge: nei legami più profondi sono assenti nodi e corde, eppure nessuno può scioglierli. Che bello!
Se puoi parlare direttamente con chi è parte del tuo cuore, fallo: pur nel rispetto che mai deve mancare, cerca il contatto fisico. Abbraccia, accarezza, guarda, bacia. Se per qualche tempo non è possibile respirarsi … parla al telefono.
Qualche mese fa non era così. I miei contatti giornalieri di WhatsApp era raro che fossero più di uno. A volte potevo trascorrere anche tre giorni senza l’avviso di un messaggio arrivato o senza il bisogno di raggiungere qualcuno. Poi in poche settimane una vera escalation. Mi si diceva… per comodità. Gli sms costano. Le telefonate pure e spesso sono imbarazzanti.
In realtà l’impressione è che stesse affermandosi una nuova forma di narcosi. Un nuovo oppiaceo per addormentare la quotidianità ordinaria (o faticosa o noiosa o tante altre cose che ciascuno può sapere). Così piace sentire il tepore di essere in contatto con qualcuno. Non essere soli. Qualche parola lusinghiera, un po’ di virtualità alla mancanza di coraggio di una vita relazionale da vivere… fisicamente.
Un’opinione, naturalmente.
Canto di chimera quel brusio continuo dall’alba al tramonto e poi di nuovo all’alba, con i telefoni in carica per non perdesi nulla, magari neanche nella notte. Lo scenario è però quello noto… il timore del silenzio. Di vedersi dentro. Di stare in compagnia di se stessi.
Mi piace la tecnologia e in essa vedo l’ingegno umano. Ma per certi versi sono un uomo all’antica e uno dei miei maestri è stato Pitagora. Diceva così:
Uomo che ami Parlare molto:
Ascolta e diventerai simile al saggio.
L’inizio della saggezza è il Silenzio.
E vale anche per le donne naturalmente ricordare che aprendo gli occhi si impara più che aprendo la bocca.
Così io ho fatto la mia scelta. Alle 22, spengo il telefono. Se non fosse per ragioni professionali e di responsabilità lo farei anche prima. Ma bene così.
Caro WhatsApp, ti voglio bene per quel che di nobile comunicazione permetti nel mondo. Hai un grande forza. Perfino i tratti ammalianti di una meretrice cui è difficile resistere.
Ma io non abito da te. Sto molto bene con me.